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STORYTELLING

Questa sezione è un grande contenitore di storie

Storie in bilico tra realtà e invenzione 

Storie vere che sembrano inventate 

Storie inventate che sembrano vere

Storie vere come lo sono tutte le storie inventate

Si intrufola nel mio studio con la fretta di chiudere la porta, e sospira affaticata.

Chissà da quale lupo sta scappando.

Camminavano fianco a fianco, madre e figlio, senza sfiorarsi, senza guardarsi, senza capirsi, senza sapere chi accompagnava chi.

C'è tutto un mondo dietro a quel cancello, un luogo neutro dove si va per ricominciare da capo, per ritrovarsi quando ci si perde

Un cappottino grigio di qualche taglia di troppo, i capelli biondi raccolti in un ciuffo un po' scomposto, la pelle chiara di carta velina e due grandi occhi azzurri e spaventati. Si muove a passo svelto e nervoso per i corridoi, disorientata. Un cucciolo spaurito, una bambina scappata da una fiaba in bianco e nero, alla ricerca di un riparo dove il lupo non possa arrivare; 18 anni, gracile, sofferente e in cerca di un luogo sicuro, dove la sua storia possa avere un lieto fine.

 

Si intrufola nel mio studio con la fretta di chiudere la porta, e sospira affaticata.

Chissà da quale lupo sta scappando.

 

"Mi scusi, ho fatto una corsa, avevo paura di non farcela" 

 

La voce è esattamente come la immaginavo: sottile e delicata.

"Mi scusi", "paura" e "non farcela"; la sua prima frase è già piena di lei.

 

Si siede di fronte a me; raggomitolata nel suo cappotto occupa metà della sedia. Ha solo un foglio in mano e nient'altro, ha portato solo se stessa.

Fatico a distogliere l'attenzione dai suoi due grandi occhi richiedenti, due occhi trasparenti, ma velati dalla nebbia della tristezza.

Stiamo lì in silenzio, l'atmosfera è ovattata, quasi fiabesca. 

Le pareti del mio studio delimitano quello che è già diventato il nostro spazio, contenitore di una relazione che ha già preso vita, con incredibile rapidità, da questi primi sguardi. 

 

Mi fissa e cerca nel mio sguardo le risposte alle domande che probabilmente si fa da tempo. Forse non cerca le risposte, è ancora alla ricerca delle domande.

È un momento di intenso e silenzioso scambio. 

 

"È strano essere qui… è grande" commenta guardandosi attorno, rompendo quel silenzio duro da sostenere a lungo perché troppo simile al vuoto "però non è male”.

I posti nuovi sembrano sempre più grandi di quello che sono, poi li conosci e si ridimensionano; è il tempo a renderli più alla tua misura.

 

“Ultimamente mi è difficile pensare al futuro, non so nemmeno se c'è un futuro per me. Non so chi sono, non l'ho ancora capito. Me lo dica lei chi sono"

 

Sono passati solo pochi minuti e mi ha già delegato la ricerca della sua identità. Allude alla domanda più radicale e crede che io detenga la verità, che possa risponderle con l'immediatezza della rivelazione. Il suo "chi sono io" è un'esplicita domanda di sapere che precede la relazione e allo stesso tempo la inaugura.  

 

Mi sembra di avere di fronte un vaso di cristallo, fragile e prezioso. Mi muovo con cautela, Scelgo parole morbide che assomiglino il più possibile a carezze; ho paura di romperla.

È così piccola, occupa così poco spazio, eppure ha già riempito la stanza. 

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capottino grigio

Camminavano fianco a fianco, madre e figlio, senza sfiorarsi, senza guardarsi, senza capirsi, senza sapere chi accompagnava chi.
Camminavano fianco a fianco, tracciando due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, o forse a non separarsi mai.

Camminavano e uno strano effetto ottico li faceva sembrare un corpo solo, tutta quella sincronia di movimento e quel gioco di ombre facevano pensare a uno sdoppiamento della vista.
Né distanti, né distinti.

Eppure erano due: due corpi, due vite.
Il dolore invece era uno solo e per osmosi passava da un corpo all'altro, senza chiedere il permesso; si adagiava sui loro volti trasformandosi ora in rabbia, ora in tristezza, ora in rassegnazione.
Le emozioni no, non erano sincronizzate.

Lei, che aveva imparato col tempo a convivere con i silenzi del figlio, a trasformare quelle assenze in parole, a significare quei vuoti, a interpretare quel viso sempre inespressivo, non si capacitava del fatto che un ragazzo dalle infinite risorse potesse aver deciso un giorno di smettere di dar voce alle sue parole, di disimparare a parlare, di spegnere l’interruttore delle emozioni, di rendersi invisibile, grigio e passivo.

Lei, donna raffinata, elegante, sempre sicura di sé, quel giorno non era sicura di niente, tanto meno di sé.
Il dolore frammenta, distrugge e scompone in mille pezzi anche una donna tutta d’un pezzo.

Avrebbe voluto al suo fianco, in quel momento così delicato, il marito. Le mancava qualcuno che le stringesse forte la mano e le dicesse “Andrà tutto bene”, anche senza crederci troppo, anche se niente stava andando bene; qualcuno che le asciugasse le lacrime che le rigavano quel viso ancora troppo giovane per risentire del tempo, ma precocemente stanco. Era sola e doveva bastarsi.

Continuava a ripetersi che lo stava facendo per il bene di suo figlio e per il bene di tutti, che allontanarlo per un periodo dalle tensioni familiari lo avrebbe aiutato, che non lo stava abbandonando, no!, lo stava solo affidando a uno specialista che si sarebbe preso cura di lui. Affidare e abbandonare. In quel momento le due parole si assomigliavano troppo, in quel momento la sua mente era troppo annebbiata per badare a queste sfumature.

Sentiva di aver fallito; aveva rinunciato a essere donna per essere mamma, aveva investito una vita intera nell’educazione di suo figlio, senza chiedere aiuto a nessuno perché chiedere aiuto era segno di debolezza. L’aveva coccolato e cullato

finché lui non gliel’aveva impedito, finché in silenzio non gli aveva detto “Sono grande, non mi servi più”. Lui sì che l'aveva abbandonata.
Era arrivato il momento di farsi da parte, di allontanarsi provvisoriamente da quello che era era sempre stato per lei non solo un figlio, ma un vero e proprio prolungamento di sé. Avrebbe voluto affidarlo di nuovo a se stessa, prendersene cura lei, come aveva fatto fino ad allora, perché anche se era cresciuto, e lei lo vedeva, era pur sempre il suo bambino e i bambini non si mettono nelle mani degli sconosciuti. E invece si trovava nella condizione che sempre aveva evitato: quella di chiedere umilmente aiuto a chi aveva qualche strumento in più per trovare un varco e inoltrarsi, in punta di piedi, in quello sconosciuto e silenzioso mondo a cui lei non aveva più il permesso di accedere.

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camminavano fianco a fianco
cancello

Il giardino era curato nei dettagli, come se quella regolarità dovesse in qualche modo compensare il disordine e le stranezze di cui il giardino era spettatore privilegiato. Alberi dai tronchi maestosi e siepi sagomate infondevano quella tranquillità che solo il verde della natura sa dare.

Luce e ordine dominavano la scena e creavano un’amena scenografia in parte confortante per una madre che deve accettare di lasciare lì una parte di sé.
"Tutto sommato pensavo peggio. C'è tanto verde"

Luglio spargeva su quel prato una luce tipicamente estiva. Una banale mattina di sole, di un sole noncurante che non si lascia condizionare dalle nebbie degli umori

umani e, senza preconcetti, illumina anche il parco di una casa di cura.
Perché il sole non bacia solo i belli.


Curioso come il covo degli strani non apparisse affatto strano.
Bizzarro come le umane leggi dell’apparire valessero anche in un posto del genere, dove le leggi esistono solo per essere violate e la normalità è l’eccezione.

Prima solo verde, poi qua e là cominciarono a intravedersi esseri umani.

Un uomo dai capelli brizzolati puntava un dito verso l’alto e compiaciuto osservava l’ombra che il suo dito creava sul terreno, poi si guardava le mani e i suoi occhi si stupivano. Non è da tutti fermare il sole con un dito, rifletteva, e lui, in quel momento, era padrone del sole. Se tutti gli uomini puntassero le dita verso il cielo, un’immensa macchia d’ombra coprirebbe la Terra e si farebbe notte. Il sole è davvero nelle nostre mani.

Un’anziana fata bianca, con una tunica bianca, un paio di sandali bianchi, il trucco bianco e una coroncina dorata sulla testa a mo’ di aureola gesticolava nel vuoto e borbottava qualcosa che assomigliava ad un incantesimo.
Una donna bambina dalla camminata goffa, con uno zainetto rosa, portava in mano un mazzolino di margherite fiorite rubate di soppiatto ad un’aiuola. Orgogliosa mostrava il suo tesoro e regalava un fiore e un sorriso in cambio di un grazie, ma solo ai più fidati, non a quelli col camice bianco.

Dietro una siepe, accovacciata a terra per non farsi vedere, una donna grassa grassa mangiava una foglia di quercia con l’ingordigia di chi fa qualcosa di vietato e deve fare in fretta. Non era fame compulsiva la sua, ma un’istintiva voglia di diventare parte integrante del miracolo della natura, di essere grata a quelle piante che regalano ogni giorno vita all’uomo senza chiedere niente in cambio.

Gruppetti di persone dagli occhi stropicciati dagli ansiolitici sedevano fianco a fianco sulle panchine e, senza farsi sopraffare dal bisogno di dire per forza qualcosa, si limitavano a condividere il silenzio.
C’era anche chi passeggiava per il parco giusto per far camminare un po’ le scarpe; a testa bassa e con le mani dietro la schiena procedeva come fosse un automa, con il solo scopo di camminare, con la lentezza di chi deve portarsi il peso del mondo sulle spalle.

In un angolo del giardino, all’ombra di un pesco carico di frutti, un giovane di bell’aspetto cercava di domare i capelli grigi di una signora dal rossetto sbavato che, appagata da quelle giovani cure, si lasciava pettinare come una bambola.

Passo dopo passo, madre e figlio vennero assorbiti da quel mondo di cui erano completamente all’oscuro, un mondo che funzionava secondo regole tutte sue, in cui non c’era distinzione reale e irreale, un mondo in cui regnavano la lentezza, la calma e il culto del minuto, dell'attimo che non fugge se riesci a fermarlo. Non c’era spazio in quel giardino per la frenesia, per brusche frenate di macchine frettolose, per minuti rubati a un orologio che va troppo svelto, per il ritmo incalzante di giornate intasate d’appuntamenti, per urgenti telefonate curiose di sapere dove sei, come stai, cosa fai. Lì non c’erano problemi di tempo e di spazio perché lì quasi tutto era possibile.

Medici ed infermieri dal camice bianco, con il loro nome impresso sul taschino, camminavano a testa alta calpestando i soliti vialetti, senza lasciarsi scuotere da

quelle stranezze. Il potere dell’abitudine... Con passi svelti e sicuri, salutando qua e là qualche collega, si avviavano verso l’uscita. Dopo aver timbrato il loro cartellino, soddisfatti o stanchi, varcavano il cancello e si lasciavano alle spalle una giornata di lavoro per tornare a casa alla quotidianità di un piatto pronto, di un figlio capriccioso che non vuole fare i compiti, di una suocera che suona al campanello per sapere se va tutto bene.

C'è tutto un mondo dietro a quel cancello, un luogo neutro dove si va per ricominciare da capo, per ritrovarsi quando ci si perde, per smantellare una serie di certezze e di sovrastrutture, per dare un nome ai propri fantasmi e renderli meno disturbanti. Per riabilitarsi alla vita. Ma è fuori dal cancello che si diventa matti, è fuori che ci si perde, che nascono i fantasmi, che la smania e la competizione fanno perdere il lume della ragione, è fuori che si inventano le più svariate strategie per non soccombere e non essere macinati dall'ingranaggio. È il mondo dei normali a dettare legge.

Si tratta di capire qual è il mondo giusto dei due, ammesso che solo due siano le possibilità e che ne esista uno migliore dell’altro; o per lo meno di trovare un accordo su quale dei due mondi è più a misura d’uomo.
Il senso comune dice che chi sta dentro a quel cancello è matto. Chi sta fuori è sano.

E chi entra ed esce dal cancello allora che cos’è? A quale dei due mondi appartiene?

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